Sono trascorsi trentotto anni dalla strage mafiosa di Pizzolungo, nel trapanese, ma il racconto di Margherita Asta e Carlo Palermo rimane toccante, mentre lasciano scivolare lacrime di commozione. Il primo appuntamento del “Festival per la legalità” di venerdì 9 giugno ha cercato di scandagliare l’attentato dinamitardo attraverso un’analisi dei fatti pubblici e privati sotto la lente di un’atroce sofferenza con la quale si convive ogni giorno.
Margherita Asta ha perso tragicamente a dieci anni la mamma trentenne Barbara Rizzo e i suoi fratellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore, perché per una fatalità la vettura sulla quale viaggiavano si è frapposta fra quella in cui era presente il magistrato Carlo Palermo e l’autobomba. «So che mamma e i gemellini Giuseppe e Salvatore sono morti in un istante. Col tempo ho cercato di dare un senso al dolore che continuo a provare incessantemente: accogliere questo dolore significa avere un motivo per sopravvivere e andare avanti».
Le parole di Asta sono una fitta al cuore. «Qualcuno deve pur salvaguardare la storia e la memoria. Quella di Pizzolungo è una strage che non viene ricordata. Ci si è dimenticati di citarla finanche quando è stato arrestato lo scorso marzo Matteo Messina Denaro». Risulta, dunque, difficile mantenere i riflettori accesi su una vicenda così drammatica, sfuggendo i motivi di una tale marginalizzazione.
Asta ha trovato un modo per elaborare il suo dramma confluendo le energie in Libera, l’associazione contro le mafie, come referente del settore “Memoria” per l’area italiana centro nord. Fare testimonianza è espressione di un senso del dovere verso la collettività, nonché una modalità terapeutica per non chiudersi in se stessa e riflettere sul perché lei, per pura casualità, sia rimasta in vita, non avendo accompagnato la mamma quel maledetto 2 aprile 1985.
I destini di Margherita Asta e Carlo Palermo sono, dunque, uniti indissolubilmente da quasi quarant’anni. Poco più che bambina, Asta provava molta rabbia verso l’allora pubblico ministero, individuando in lui la causa della distruzione della sua famiglia; con la maturità, ha compreso che Palermo fa i conti con un pesante senso di colpa. Camminano insieme per la ricerca della verità. «Deve essere ancora più devastante del morire per Palermo convivere con quelle immagini indelebili che gli scorrono continuamente davanti agli occhi».
«Minacce inenarrabili». Carlo Palermo, per via delle sue indagini sul traffico di droga e di armi, è stato bersaglio di Cosa Nostra: fallito l’attentato nei suoi confronti, la mafia siciliana ha continuato a perseguitarlo. Le misure di scorta sono state tra le più numerose possibili, capitando raramente che un magistrato sia sopravvissuto a una strage.
Nonostante tutto, per Palermo, comprendere gli intricati meccanismi resta un obiettivo da conseguire sino alla fine. L’essere sfuggito alla morte di Pizzolungo ha comunque segnato un drastico cambio di esistenza. Svestiti i panni del magistrato e indossati quelli dell’avvocato e del politico, Palermo ha cominciato a indagare in veste privata, con maggiori ostacoli da affrontare, non potendo contare su una serie di strumenti di lavoro che sono destinati ai magistrati.
Sembra che il sistema voglia mettere a tacere la voce di Palermo e le sue ricostruzioni che individuano un direttorio internazionale in cui confluiscono la mafia, la massoneria e i servizi segreti. «La strage di Pizzolungo è dimenticata volontariamente, perché le mie tesi sostengono qualcosa in più, come una matrice superiore massonica che si incentra sulla segretezza del rapporto», commenta Palermo, in una voce tendenzialmente ferma che governa un dilaniato foro interiore, «I magistrati oggi continuano a lavorare su determinate ipotesi di reato: per loro è difficile discostarsi dall’impostazione tradizionale allargando gli orizzonti a confini di più ampio respiro nazionale e internazionale».
All’esito di molteplici processi su Pizzolungo, risultano condannati in via definitiva i mandanti, ma gli esecutori materiali sono stati assolti. Ad oggi, dunque, sono a piede libero. Palermo persevera nelle sue opere di raccolta di documenti e di studio per interpretare i collegamenti tra le varie vicende del passato che si ripercuotono nel presente. Il suo impegno è volto a pretendere un atto di scioglimento della loggia massonica da parte di una politica sinora inerte.
«Chiedere di scrivere il diritto alla verità» è l’appello di Daniela Marcone, vicepresidente di Libera, segnata anche lei dall’omicidio di suo padre Francesco, ammazzato da un gruppo di colletti bianchi appartenenti alla criminalità foggiana. Anche in questo caso, purtroppo le indagini si sono concluse con un nulla di fatto, sfociate in archiviazione. «Conosco solamente dei pezzi sulla morte di mio padre, ma mai mi sarei immaginata di dover lottare per ottenere giustizia».
È speciale il rapporto di Marcone con Asta, trovandosi a condividere la memoria dei loro familiari. «Io sopravvivo al dolore di una sola persona, Margherita a quello di tre. Mi sono sempre domandata come sia possibile gestire tutto questo patema», si apre col pubblico Marcone, «Con Margherita passiamo dalle lacrime alle risate. La dimensione umana è totale. Pensavo che Margerita fosse lacerata da una rabbia monopolizzante e invece il suo senso di umanità è stemperato dalla speranza e mai dalla rassegnazione».
L’assassinio rientra tra i «fatti umani»: chi ha ucciso è un uomo, non un mostro. Proprio per questo «non si può parlare di perdono, bensì di umanità, per la quale chiedo verità», conclude Daniela Marcone.