Le avverse condizioni meteorologiche non hanno spento la curiosità di quanti, l’11 Settembre 2017, hanno partecipato all’intervento di Gian Carlo Caselli, già magistrato del pool antimafia di Palermo, durante l’anteprima della VI edizione del Festival per la Legalità, organizzato da Città Civile con il supporto del presidio di Libera. Classe 1939, istruzione salesiana, cattolico praticante, dal 2013 in pensione, Caselli oggi collabora con Coldiretti nel settore delle agromafie.
È forte il suo impegno nel contrasto al caporalato, fenomeno strutturato e diffuso in Puglia per via di una agricoltura «perversa e deviata» che sfocia nello sfruttamento e nello schiavismo. «Parlare di caporalato non significa criminalizzare il sud. Anzi, vuol dire ammettere che è un problema che ha un’estensione di un certo rilievo».
Tra le proposte da lui avanzate per inasprire la lotta alla criminalità, quelle di inserire la violenza e la minaccia come elementi costitutivi del caporalato, nonché incentivare i sistemi di premialità per chi collabora e, infine, promuovere la confisca dei beni, con esclusione di quelli produttivi da sottoporre, invece, all’amministrazione giudiziaria per garantire la continuità del loro ciclo produttivo.
Sono devastanti gli effetti delle mafie nel mezzogiorno, dal momento che «zavorrano l’economia del sud con 7,5 miliardi in meno. Senza mafie il Pil del mezzogiorno sarebbe sostanzialmente quello del nord Italia». La legalità, quindi, diventa un «vantaggio per l’intera collettività» perché migliora la qualità della vita di tutti.
Magistrato «libero e indipendente», Caselli da cinquant’anni affronta di petto la mafia, rilevandone la sua «mutazione genetica» nel corso del tempo: se un tempo essa agiva con gesti di violenza eclatante, oggi preferisce insinuarsi nel tessuto sociale in maniera «silente, con il non detto, il sussurrato e l’accennato». La mafia non è più solo un’organizzazione militare che commette vari delitti per esercitare il controllo sul territorio, ma può contare sulle «relazioni esterne», ovvero su «pezzi» della politica, dell’economia e della finanza che appestano la società civile.
«A ciò si aggiunga che ci sono molti professionisti dell’antimafia che sostengono la stessa antimafia per fare carriera», spiega l’ex procuratore piemontese «vi è un uso spregiudicato dei pentiti oltre che un impiego distorto dei processi per fare politica di parte». Tutti fattori che rinvigoriscono l’operato mafioso e i subdoli legami con le istituzioni.
A fronte di una panoramica così sconfortante, Caselli, però, mostra di essere ottimista alla fine di un lungo e corposo incontro durato più di due ore, incoraggiato dalla platea attenta del Chiostro delle Clarisse «Per combattere la mafia, occorre essere consapevoli. Dunque bisogna studiarla e conoscerla». All’organizzazione mafiosa, quindi, deve fare da contraltare l’organizzazione dei cittadini. «Resistere» è la parola d’ordine.
a cura di Cinzia Urbano
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